Quando Samsa nel congresso dell’anno scorso ha tirato fuori quest’immagine mi ha immediatamente fatto capire un mio errore che puntualmente commettevo con i miei pazienti.
A parole ho sempre sostenuto l’importanza che il recupero non fosse del movimento, ma della persona e della sua capacità di coincidere di nuovo con la sua vita, ma nella pratica mi sono accorto che non accettavo di buon grado che il paziente scendesse dal treno della terapia per salire su quello della vita.
Come riabilitatore quando prendi in carico un paziente, accetti una sfida fatta di successi, fallimenti, momenti di euforia ed altri invece bui come la notte. Sai che l’obiettivo da raggiungere è ogni santa volta più grande di te e metti in gioco energie che non pensavi di avere perchè sai che sarà un cammino tutto in salita e pieno di ostacoli; il paziente non si è fratturato il mignolo della mano ha subito un ictus al cervello, l’organo più complesso e sconosciuto. Ciononostante inizi a vedere i primi miglioramenti e sai che sei sulla strada giusta, ma vorresti sempre di più e spingi anche il paziente oltre i suoi limiti, vuoi che faccia più esercizi e che trasferisca nel suo quotidiano quello che impara con te in terapia, non accetti che lasci mai nessuno spiraglio alla malattia che è sempre li in agguato a riprendersi ciò che con tanta fatica insieme le abbiamo rubato.
Passano le settimane e anche i mesi e con estrema fatica inizi anche ad essere soddisfatto del tuo lavoro e dei progressi del tuo paziente, ma nel frattempo inizi anche sentire che non è più tuo, anzi che non lo è mai stato e che la sua vita sta bussando prepotentemente alla sua porta per chiedergli di essere vissuta, è una vita irrequieta perchè non ha più intenzione di aspettare la guarigione o i progressi che che entrambi sognavamo.
Allora il paziente si riprende i suoi spazi, alcuni non li riprenderà e altri nuovi prenderanno il loro posto, ma è qui che mi sentivo come se qualcuno sul più bello mi togliesse il mio bel blocco di marmo da sotto il naso, mentre ancora rimanevo con lo scalpello in mano e dopo aver passato mesi a scolpire, modellare e immaginare la bellezza dell’opera al suo compimento.
Voglio proteggere il paziente perchè so che la complessità della vita sovrasta le sue abilità di gestire il corpo, inizio infatti a vedere un rallentamento del recupero e in alcuni casi anche la perdita di alcune acquisizioni fatte con tanto sacrificio; se mi capitava di vedere un post sui social di una sua gita il mio occhio cadeva sulla mano e pensavo a come l’avrebbe irrigidita senza pensarci proprio come avevamo imparato insieme, ma mi perdevo invece il suo sguardo pieno di soddisfazione per aver ripreso in mano un pezzettino della sua vita.
Adesso che descrivo il mio comportamento mi sembra grottesco e al limite del patologico, ma è la verità di cosa accadeva nel mio piccolo mondo interno.
Ho sentito l’intervento di Samsa che presenterà questo weekend nel congresso del 11 e 12 Dicembre e quando dice:
“Adesso vivo (E) faccio riabilitazione, è cambiato il rapporto tra le due”
Mi aiuta a capire che il paziente non è mai stato mio e che il mio mandato era proprio quello di facilitare questo passaggio tra i due treni aiutando il paziente a riconciliarsi con la propria vita al massimo delle sue possibilità.
Grazie Samsa
Samsa Gregor è lo pseudonimo che lo stesso paziente ha utilizzato per firmare il suo libro che consiglio di leggere: Arcipelago ictus – Lo trovi su Amazon.