Quando incontro un paziente per una visita non posso fare a meno di non immedesimarmi nel suo stato d’animo e vivere quella preoccupazione mista a speranza. La preoccupazione di sentirsi dire dal professionista che non ci sono più possibilità di recupero contrapposta alla speranza di sentire invece che delle possibilità ci sono e che finalmente qualcuno crede nel suo recupero. Sono stato e sono spesso anche io un paziente e quando scelgo un professionista non solo mi aspetto, ma pretendo che questo sia aggiornato, attento e competente.
Mi rendo conto che i pazienti che hanno bisogno di riabilitazione cercano anche qualcosa in più: tecnologia all’avanguardia. Questo articolo mi costerà più di qualche critica, sono consapevole di avere una posizione a dir poco impopolare e che a quanto pare il mondo sembra andare in una direzione opposta, ma sono comunque motivato a condividere il mio personale punto di vista su quella che non nascondo definire una vera e propria tecnomania.
Quando vivevo a Roma e visitavo nel mio centro, vedevo che sia il paziente che il familiare mentre discutevamo il loro caso, si guardavano intorno alla ricerca di qualche strumentazione o apparecchio robotico, mentre nelle visite online questa ricerca ovviamente è assente, ma nell’immaginario del paziente rimane l’irresistibile attrazione per le terapie robotiche. Questi desideri sono stati intercettati anche da aziende sanitarie che decidono di investire in tali tecnologie e gli consentono di richiedere finanziamenti pubblici per avviare progetti di ricerca che vengono finanziati con una certa facilità perchè sottintendono un carattere innovativo. Spesso apriamo il giornale (esistono ancora?)… o meglio, spesso leggiamo su internet dell’ospedale X che in collaborazione con l’università Y (ovviamente meglio se americana per assecondare anche la nostra estero ed americomania) che grazie ai finanziamenti pubblici hanno avviato un progetto pilota di riabilitazione tramite robotica e realtà virtuale.
Immagino che dopo aver letto quest’ultimo paragrafo tu possa pensare che io sia contrario allo sviluppo tecnologico in riabilitazione, un sorta di retrogrado luddista di traverso alla rivoluzione industriale, magari spinto dalla preoccupazione che le macchine ruberanno il lavoro operaio del fisioterapista. Niente di più lontano, l’automazione è un processo inevitabile e che accolgo anche con curiosità e assertività, al supermercato scelgo la cassa automatica, in aeroporto imbarco il bagaglio al banco self, lavoro da tempo a un app basata su intelligenza artificiale per la Gait Analysis e sono un assoluto fan dell’innovazione. È dal 2007 che ho dato vita a ResilientS, un programma di riabilitazione proprio basato sull’innovazione tecnologica e informatica, non sono di certo l’emblema dei conservatori da questo punto di vista, anzi durante la mia carriera ho dovuto assorbire numerose critiche proprio rivolte al mio uso “esagerato” della tecnologia, ma temo che stiamo cadendo in un tranello molto pericoloso: quello di confondere il progresso scientifico con il progresso tecnologico. Sarebbe un errore gravissimo confondere le due cose, e quest’articolo è un motivo per accendere il dibattito.
Tempi moderni
Ormai 20 anni fa, tra i banchi dell’università c’era già chi era abbonato alle riviste di settore, chi le ha conosciute sa bene che per metà sono composte da pubblicità esplicita di macchinari, attrezzature e corsi per la fisioterapia e per l’altra metà da articoli che fanno pubblicità implicita a macchinari, attrezzature e corsi per la fisioterapia. Un giorno c’era un pubblicità che primeggiava su tutte: il Loco-M@ck (nome più o meno di fantasia).
Un attrezzatura che all’epoca sembrava uscita da un romanzo di Asimov, un esoscheletro in grado di sostenere il paziente facendolo camminare attraverso il movimento delle gambe robotiche.
“La macchina insegna il movimento del cammino al cervello del paziente che lo registra”
Questo era il motto della reclame e devo dire che per noi universitari sembrava anche ragionevole, addirittura uno dei ragazzi in dialetto romanesco disse: “Aho nun famo n’tempo a laureasse già semo disoccupati“, facendo scoppiare tutti in una fragorosa risata. Erano i primi segnali di una rivoluzione industriale che a breve avrebbe investito il mondo della riabilitazione, la robotica si apprestava a fare irruzione stuzzicando i sogni di tutti. Il paziente sogna un recupero rapido e senza sforzi guidato da uno scheletro esterno instancabile che lo rimetta in piedi in un baleno, l’amministratore delegato dell’azienda sanitaria sogna una palestra riabilitativa attrezzata con robot in grado di trattare più pazienti possibili contemporaneamente e che liberi dal vincolo della terapia operatore-dipendente ovvero che non abbia bisogno della presenza continua del fisioterapista e ancor meglio se tale figura sia il meno specializzata e il più sottopagata possibile. Il fisioterapista sogna di lavorare presso una struttura all’avanguardia al passo con il procedere dell’innovazione (di certo non aspira ad accendere, impostare e spengere un macchinario stile tempi moderni di Charlie Chaplin)
Tecnologia sì o tecnologia no?
La domanda è mal posta, non stiamo discutendo se sia opportuno o meno che la tecnologia entri nel mondo della riabilitazione, nessuno potrebbe sostenere una tesi così fastidiosamente anacronistica, ma il piano della discussione ci porta a riflettere se l’imponente uso della robotica e della realtà virtuale nella cura dell’ictus sia davvero frutto del progresso scientifico o ancora una volta figlio del mercato che ha saputo intercettare i desideri degli utenti. La domanda è la robotica e la realtà virtuale aggiunge o sottrae valore?
“Per recuperare un sistema complesso c’è bisogno di un sistema parimenti complesso”
Lo disse Alain Berthoz un famoso neurofisiologo e ingegnere francese, autore di libri molto importanti per chi si occupa di neuroriabilitazione come “Il senso del movimento” e “Scienza della decisione“. Lo scienziato francese disse questa frase durante uno dei congressi di riabilitazione neurocognitiva organizzati da Carlo Perfetti e partendo proprio da questa frase vorrei proporre un paragone tra l’intervento riabilitativo prodotto da un fisioterapista e quello prodotto da un apparato robotico come il Loco-M@ck o altri esoscheletri per la mano e il braccio in grado di produrre movimenti in accordo con quanto accade su uno schermo di fronte al paziente.
Mettiamo a confronto i materiali
Da una parte abbiamo un insieme di pulegge meccaniche e servomotori in grado di aprire e chiudere le dita del paziente meccanicamente mentre questo guarda un monitor dove viene riprodotte delle immagini stilizzate di oggetti o della mano (sperata dal corpo e da qualsiasi contesto) a contatto con l’oggetto.
Dall’altra vediamo due mani che non solo dal punto dei vista dei tessuti sono tecnologicamente molto più avanzati, le ossa i muscoli, la cute e le articolazioni sono in grado di generare dei movimenti della mano del paziente che non si limitano all’aprire e chiudere le dita della mano in modo indiscriminato, ma sono in grado di differenziare il movimento delle dita, coinvolgere il palmo e adattare il movimento alle resistenze che la mano del paziente sta producendo.
Mettendo a confronto i materiali utilizzati per entrambi gli apparati, i materiali del “robot” umano sono altamente più sofisticati del guanto meccanico.
Confrontiamo gli ingegneri
Spero sia chiaro lo spirito provocatorio del post, per questo chiedo di lasciarci trasportare da questa suggestione e mettere anche a confronto l’ingegnere che uscito dalla migliore università del mondo a pieni voti e che per realizzare tale guanto ha lavorato per 20 anni con i migliori ricercatori, e madre Natura con il suo bagaglio di miliardi di anni di esperienza grazie ai quali ha potuto realizzare quelle due mani di “carne” facendo tante prove e imparando da innumerevoli errori.
Paragoniamo i software utilizzati
Da una parte abbiamo una scheda elettronica più vicina a quella che abbiamo nel forno a microonde in cucina di quella dentro le playstation dei nostri figli, dall’altra abbiamo a che fare con un qualcosa che non può nemmeno essere paragonata a una scheda elettronica (anche se molti provano a persuadersi del contrario). Le mani che vediamo in carne e ossa sono un’estensione della mente del terapista, ma è possibile anche asserire il contrario ovvero che la mente sia un’estensione delle sue mani, con questo intendo dire che a differenza dell’apparato robotico dove la parte hardware e la parte software sono sostanzialmente separate e distinguibili, nell’essere umano questa distinzione non è possibile portarla a termine rendendo l’uomo un “cyborg” di complessità superiore, in grado di imparare, apprendere e modificarsi in tempo reale
È necessario continuare?
Potrei continuare a mettere a confronto le mani del robot con quelle dell’umano, ma non è mio proposito entrare nei dettagli tecnici, il mio interesse era quello di provocare un dubbio nei confronti della tecnomania che ha permeato le nostre aspettative di recupero in seguito a un ictus. Un cyborg è come dice la parola un organismo (ORG) dotato di componenti cibernetiche (CYB), appunto CYB-ORG, ma è possibile definire anche il fisioterapista un cyborg?
Le componenti cibernetiche sono tutte quelle proprietà di cui l’organismo nudo si è dotato per rendersi più adatto all’ambiente in cui vive, anche un paio di occhiali o i vestiti che indossiamo sono componenti cibernetiche frutto dello studio e della cultura, e le conoscenze stesse necessarie per realizzare e dare vita a un esercizio sono allo stesso modo delle componenti cibernetiche aggiuntive.
Per questo il paziente che sogna la miglior tecnologia per il proprio recupero, a visita dal proprio professionista potrebbe adesso osservarlo con altri occhi e vederlo come l’apparato tecnologico che sia mai stato creato in natura e che ad oggi è ancora impossibile riprodurre meccanicamente, inoltre se volesse analizzare le sue componenti cibernetiche, potrebbe per questa volta cercare di capire la profondità e l’adeguatezza delle conoscenze di riferimento che il terapista-robot utilizzera per costruire gli esercizi.
E invece mi sbagliavo
Ancora una volta il confronto con i pazienti e con i colleghi su questi temi è stato determinante, infatti proprio durante la stesura di questo articolo ho lanciato sul Gruppo Facebook dei pazienti e familiari e sul gruppo dei colleghi terapisti la seguente domanda: “Cosa pensi della robotica?” e come al solito le risposte sono state illuminanti e mi hanno permesso di rispondere in modo più accurato alla precedente domanda:
“La robotica aggiunge o sottrae valore alla riabilitazione?”
La maggiorparte dei pazienti sono assolutamente convinti che la robotica sia una eccellente possibilità riabilitativa, non in sostituzione del fisioterapista, ma in associazione e la loro non è solo un’opinione bensì un giudizio fondato su esperienza diretta. Chi ha provato la robotica, specialmente simil Loco-M@ck nei confronti del cammino suppone inoltre che all’averla avuta a disposizione per più tempo e dai primi periodi di convalescenza avrebbe prodotto risultati positivi ancora più decisivi. Confesso che questa indagine fatta sui social mi ha messo nella condizione di interrogarmi di nuovo: “come è possibile che solo io pensi che il fisioterapista è un robot già di per se così sofisticato a cui l’aggiunta di un macchinario per il cammino non aggiunga nessun valore?”
La risposta a questa interrogazione è che mi sbagliavo. Conoscendo il percorso riabilitativo di molti dei pazienti che hanno risposto al mio sondaggio in effetti rimango persuaso dalle loro risposte, che la robotica gli abbia offerto un vantaggio nel recupero, perchè probabilmente la componente umana della loro riabilitazione non ha saputo mettere in atto nel sistema riabilitativo quei contenuti e quelle modalità di intervento sufficienti e necessarie. In altre parole è chiaro che se il paziente riceve una fisioterapia dove il terapista propone mobilizzazioni passive e attive degli arti e dove per la rieducazione del cammino si limita avviene sul tapis roulant o sulle parallele ma senza far riferimento all’esperienza dell’esercizio per correggere e guidare il paziente, allora sono costretto a ricredermi e dover affiancare i pazienti nel confermare che la robotica in questo caso aggiunga valore alla terapia. Il lettore attento avrà compreso dalla descrizione del sistema terapeutico messo in atto dal terapista umano, che la robotica è stata in grado di offrire valore solo perchè era la terapia umana ad averla sottratto in precedenza.
Il cammino guidato
Il lettore attento avrà anche osservato quanto sia più facile la via negativa, ovvero quella dove si descrive cosa non fare piuttosto che cosa invece andrebbe fatto, ma cercherò comunque di spiegare come una buona rieducazione del cammino realizzata dal terapista umano se ben ideata non presenta alcun margine di aggiunta di valore da parte di un esoscheletro.
Il terapista umano è assolutamente in grado di poter aiutare il paziente a camminare facendogli sentire le caratteristiche cinematiche e biomeccaniche corrette del passo. Non ci sono distinzioni di sesso o di statura, ogni professionista è in grado di farlo con le proprie mani. Analizziamo le deviazioni caratteristiche del cammino del paziente emiplegico, partendo dalla più caratteristica di tutte, quella che conferisce alla marcia quel movimento circolatorio dell’arto inferiore a cui si attribuisce il nome di passo falciante. In questo momento il paziente che in precedenza ha già subito un tipo di riabilitazione che ha aumentato la rigidità dei muscoli producendo una sinergia estensoria della muscolatura, non è in grado di flettere il ginocchio e flettere l’anca per produrre lo stacco del piede da terra e la successiva oscillazione dell’arto in avanti, per questo deve fare affidamento su componenti motorie più elementari come quelle che gli permettono di sollevare il fianco e oscillare l’arto in avanti grazie al movimento del tronco. Il terapista in questa circostanza ha una occasione che l’esoscheletro non è in grado di poter cogliere, ovvero quella di chiedere al paziente di provare a flettere il ginocchio controllando la spasticità e gestendo il movimento in modo intenzionale portando attenzione al proprio corpo e percependolo, il terapista con le sue mani lo aiuterà a controllare la tendenza a utilizzare segmenti del corpo indesiderati e aiuterà nel movimento completando ciò che il paziente per gli ovvi deficit di forza non è in grado di produrre. Il paziente in questo modo partecipa attivamente alla generazione del movimento corretto da una parte e riceve il supporto “meccanico” del terapista solo come completamento di ciò che non è in grado di mettere in atto e non si tratta di una sostituzione totale della macchina. Per quanto riguarda il claim “il cervello è in grado di registrare il movimento corretto” credo che il cervello se proprio dobbiamo vederlo come un organo che registra qualcosa, allora credo che registri più facilmente qualcosa di cui è protagonista e partecipe. Inoltre la sessione di cammino guidato dal terapista umano avviene in un contesto reale, intendo dire che il paziente vive l’esperienza del carico totale e non quella ridotta di quando è imbragato nell’esoscheletro e altra caratteristiche reale che il paziente poi sarà in grado di ricordare con maggior facilità è quella relativa alla dinamica del corpo che avanza sul suolo che rimane fermo, e non del tapis roulant che scorre sotto i piedi, infine per completare il ragionamento inerente al realismo c’è anche l’aspetto relativo alla cinematica, intesa come velocità e ampiezza degli spostamenti articolari, l’esoscheletro per quanto sia regolabile, produce una velocità e uno spostamento articolare non realistico per le condizioni attuali del paziente. Aggiungo un altro aspetto esclusivo del trattamento umano a cui la sessione di eso-cammino robotico non può aggiungere valore che è il richiamo all’esperienza dell’esercizio. Il terapista che aiuta il paziente a camminare correttamente, lo aiuta manualmente, ma lo guida anche con le sue istruzioni e tra queste ci sono anche i continui richiami agli esercizi fatti proprio per aiutare il paziente a innescare i movimenti più adatti durante il cammino, ad esempio nel momento in cui il paziente deve raggiungere il suolo con il piede potrà ricordargli l’esercizio appena svolto dove il paziente doveva riconoscere diverse consistenze con il tallone, a questo punto il cammino guidato non rappresenta una mera esecuzione meccanica del passo, ma un’opportunità del paziente di mettere in pratica tutto ciò che ha imparato con il terapista e questo stimolazione all’apprendimento come diceva Berthoz, per lo meno per il momento, la possiamo trovare solo grazie all’intervento di un altro essere umano.
Conclusioni
In conclusione la risposta alla domanda: “La robotica aggiunge valore o lo sottrae alla riabilitazione dell’ictus?” è :
“Non aggiunge alcun valore se il fisioterapista aiuta il paziente a camminare gestendo manualmente il movimento e invitando il paziente a partecipare intenzionalmente richiamando l’esperienza dell’esercizio, ma aggiunge valore se il fisioterapista non fa nulla di tutto ciò” .
Risorse utili
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