“Io uso un mix di tecniche”
“Scelgo quale tecnica applicare al paziente in base alla circostanza”
“Con il Bobath rimetto in piedi il paziente e poi gli faccio un po’ di Perfetti alla mano.”
Ecco perché personalmente ritengo scorretta l’idea del mix di tecniche nella riabilitazione del paziente emiplegico; non solo dal punto di vista tecnico, ma specialmente da quello epistemologico.
In realtà queste che chiamiamo tecniche, sono tutti approcci che dipendono da diverse teorie della riabilitazione ed è lì che dobbiamo spostare la discussione.
La Teoria in scienza è un insieme di conoscenze organizzate che permettono di dare significato ai fenomeni osservati e di produrre ipotesi per la soluzione di problemi. Ogni teoria dipende dal contesto storico culturale nel quale sono immersi gli scienziati che la alimentano.
La teoria muscolare ad esempio, nasce grazie agli studi sul muscolo di fine 700 condotti da Galvani e Duchenne, da quando per intenderci si è osservato che il muscolo era in grado di contrarsi grazie al passaggio della corrente elettrica; a quel punto la patologia motoria dipendeva esclusivamente da un’alterazione delle capacità contrattili del muscolo. È immediato che se la patologia è del muscolo, la riabilitazione si doterà di tutti gli strumenti per rinforzare la contrattilità del muscolo. Elastici, sacchetti di sabbia, resistenze e le stesse correnti elettriche in grado di contrarre passivamente il muscolo, sono gli strumenti di cui si dota il riabilitatore che fa riferimento a tale teoria, perché recuperare il movimento significa recuperare la capacità contrattile del muscolo.
Nell’800 c’è un balzo in avanti straordinario, Sherrington svela alcuni meccanismi nervosi legati al riflesso. La patologia motoria non è più vista solo come un’alterazione muscolare, ma anche come un alterazione dell’organizzazione dei riflessi. Nascono nella metà del ‘900 approcci come quello della Brunnstrom, di Kabat, Bobath le cui manovre erano rivolte all’inibizione di riflessi abnormi e alla facilitazione di riflessi inibiti. Secondo questa teoria neuromotoria, la patologia motoria era da attribuire all’alterazione dell’organizzazione dei riflessi di base. Gli strumenti del riabilitatore erano manovre e posture in grado di incidere sui riflessi.
Alla fine del 1960, lo studio del comportamento iniziava a dare importanza ai processi cognitivi che fino a quel momento non era possibile studiare in modo rigoroso. La patologia non era più solo il frutto di alterazioni muscolari e riflesse, ma anche il risultato di alterazioni cognitive. In quegli anni nasce l’approccio neurocognitivo di Perfetti secondo il quale la qualità del recupero dipende dalla modalità di attivazione dei processi cognitivi. In quegli anni il neurofisiologo, che fino ad allora, studiava i soggetti a cui era stata inferta una lesione mesencefallica, quindi dal collo in giù per intenderci, grazie allo sviluppo delle tecniche di imaging che permettevano di studiare il comportamento del soggetto vivo e sveglio, finalmente erano in grado di studiare il comportamento non solo dal punto di vista muscolare e riflesso, ma considerando anche la sfera cognitiva.
Affermare:
“io faccio il bobath per la gamba e un po di Perfetti per la mano”
Equivale a dire
“Adesso per il recupero del cammino considero la patologia del paziente come il frutto della sola alterazione dei riflessi e cerco di accedere a riflessi sempre superiori perché li interpreto come organizzati gerarchicamente per questo proporrò delle manovre e posture specifiche, mentre per il recupero della presa invece considero che oltre ai riflessi, l’alterazione del movimento dipenda anche dall’alterazione cognitiva del paziente e lo aiuto ad attivare tali processi proponendo dei problemi conoscitivi”
Un momento mi doto di procedure che fanno capo a una teoria che per le conoscenze dell’epoca non poteva considerare le funzioni corticali superiori, un momento dopo mi doto di una teoria che invece si è riorganizzata grazie a queste nuove conoscenze.
Tante volte si pensa che il riabilitatore neurocognitivo sia un integralista poco elastico e versatile, chiuso ad altre “tecniche” : vero. Il problema non sono le tecniche in sé, ma la relazione tra le conoscenze, ipotesi e congetture che sono alla base di queste tecniche, il problema sta nella teoria e la teoria non è sinonimo di opinione, o per lo meno non lo è del tutto.
Sono consapevole che questo post non sarà gradito a tutti e da parte di qualche collega ci sarà la voglia di discutere, di questo sono contento, mi piacerebbe tuttavia che la discussione sia rivolta sui principi che stanno dietro ad ogni approccio riabilitativo, perché è sui principi che dobbiamo discutere non sulla tecnica.
https://www.youtube.com/watch?v=IXA10z1sz4A&t=29s“C’è bisogno di scomodare l’epistemologia?”
No, non necessariamente, la scomodiamo solo stiamo ragionando ad un livello scientifico, se vediamo la riabilitazione come una branca del sapere allora sì, dobbiamo farci aiutare dall’epistemologia, se invece la vediamo come una disciplina esclusivamente operativa dove il terapista deve solo somministrare delle manovre decise da altri, è vero non c’è bisogno di rompersi la testa.
Quelle che vengono definite tecniche in realtà sono tutte operazioni che dipendono da un’insieme di conoscenze, congetture, ipotesi, deduzioni. Anche affermare la necessità di miscelare più tecniche riabilitative significa attingere a una propria teoria bene definita.
Sono consapevole che termini come teoria, congettura, ipotesi non stiano simpatici ai più, perché pensiamo che la scienza sia composta solo da verità e da fatti oggettivi, purtroppo o per fortuna ogni fatto oggettivo scavando sempre più a fondo, prima o poi si arriva sempre al punto che deve essere percepito e interpretato soggettivamente da qualcuno.